In questo articolo, il giornalista Ugo Monticelli espone quelle che lui ritiene essere le differenze tra le truppe coloniali italiani e quelle anglo-francesi. L'obbiettivo è quello di legittimare una narrazione di un colonialismo italiano benevolo, opposto invece a quello avido e arcigno inglese, contro il quale la propaganda fascista si scaglierà a più riprese. Altrove, sempre sulla Gazzetta di Parma, la massiccia presenza di truppe coloniali nell'esercito britannico, sarà così descritto: "I mercenari, tutti questi soldati di colore, stanno a testimoniare la degradazione politica e spirituale dell'Inghilterra che ha chiamato a raccolta i negri per combattere i bianchi."
In questo caso il giornalista insiste sulla fedeltà che il soldato di colore ripone nei confronti dell'Italia, il cui contribuito militare - è questa viene indicata come differenza con gli anglo-francesi - è limitato al fronte africano: "Le nostre truppe combattono sì per l'Italia, ma in terra loro in un paese ed in un ambiente che conoscono ed amano e alle cui insidie, al cui clima sono abituati e attrezzati. Così, oltre tutto, essi vengono educati a difendere la propria terra e ad apprendere di conseguenza il vero e duro amore della patria".
Dopo di ciò, il giornalista passa a raccontare le caratteristiche peculiari del soldato nero, attingendo ai cliché del razzismo coloniale e al mito del "buon selvaggio".
In questa nostra guerra che è per tre quarti africana, una menzione a parte meritano le truppe di coloreo, che combattono a fianco dei nostri soldati nazionale e che con essi condividono oltre che i rischi, anche le non facilmente immaginabili fatiche e privazioni della guerra nel continente nero.
Queste nostre truppe legate all'Italia da vincoli d'affetto e di devozione assoluta, hanno ormai una tradizione militare di più di mezzo secolo. Gli ascari in particolare furono creati in Eritrea dal generale Baldissera. Una caratteristica importante delle nostre truppe di colore, che sottolinea anche in questo le profonde differenze tra il nostro colonialismo e quello anglo-francese, è che noi non abbiamo mai impiegato contingenti di colore nel territorio metropolitano. L'avvilente spettacolo di battaglioni neri o gialli che, infagottati in abiti europei e tuttavia morenti di freddo, vivono la vita delle trincee, ci è stato dato finora soltanto dalla Francia.
Le nostre truppe combattono sì per l'Italia, ma in terra loro in un paese ed in un ambiente che conoscono ed amano e alle cui insidie, al cui clima sono abituati e attrezzati. Così, oltre tutto, essi vengono educati a difendere la propria terra e ad apprendere di conseguenza il vero e duro amore della patria.
Questo fatto, che non è senza importanza, trova una dimostrazione visiva anche nella diversità di uniforme che esiste fra i nostri soldati nazionali e le truppe di colore. Queste ultime, sia pure raggruppate in vari corpi, conservano le proprie caratteristiche tradizionali, in una multiformità e multicolorità di costume che le rende quanto mai pittoresche.
L'esercito coloniale italiano è quindi tipicamente ed esclusivamente un esercito africano, creato e attrezzato ed abbigliato per la guerra d'Africa e solo per essa. E' forse questo uno dei motivi per il quale a differenza delle truppe di altri paesi europei, queste nostre di colore sono così tenacemente e spontaneamente fedeli al nostro Paese. La fedeltà delle truppe di colore è un luogo comune: ma e, nel nostro caso, una verità, incredibile certe volte, per chi non ha vissuto qualche tempo a contatto dei soldati neri.
A parte gli ascari, i zaptié e in genere tutte le formazioni di origine libica, eritrea o somala, questa fedeltà si rivela in modo sorprendente tra i dubat, di formazione molto recente e caratterizzati, come si sa, da una disciplina tutta speciale, che ne fa non già delle truppe regolari, ma delle bande armate al servizio dell'Italia.
Chi ha vissuto con i dubat dopo un primo breve periodo di incertezza, di diffidenza anche e di preoccupazione (si pensi che spesso i nostri ufficiali che comandarono queste bande vengono a trovarsi in uno o due, isolati in qualche località desertica, lontana dai centri abitati, a contatto esclusivo con i loro uomini), si accorge presto di quanto sia semplice e leale l'animo di questi indigeni e quanto sia facile acquistarne la confidenza.
Confidenza! ecco la parola con la quale bisogna andar piano parlando di truppe coloniali: i nostri ufficiali lo sanno. La confidenza in materia edeve essere sempre quella che riceve dagli uomini di colore, cioè quella particolare attitudine dell'animo che in fusione con la stima, la fiducia - ma anche con il rispetto e talvolta con il timore - determina l'indigeno a confidarsi con il suo superiore bianco.
Guai però a dare della confidenza all'indigeno. Questa del comportamento da avere con le truppe coloniali, è un'arte che l'ufficiale italiano deve apprendere per prima. E non è del resto difficile, perché si fonda per l'80 per cento sullo studio della psicologia dell'indigeno che è - o può considerarsi, per intenderci - pressapoco analoga a quella di un fanciullo. Il resto dipende dall'esperienzam e dalla conoscenza delle tradizioni, dei costumi, delle abitudini locali: per esempio dei concetti indigeni del diritto e della giustizia.
La giustizia è una cosa importante non solo perché, come si sa, l'ufficiale è un po' un giudice permanente delle truppe (si può dire che tutti i giorni uno o più dipendenti ricorrano a lui per la soluzione di complicati e spesso umoristici quesiti di diritto o di onore), ma anche perché il senso della giustizia è sviluppatissimo negli indigeni, come in tutti gli animi semplici.
Punire un ladro, un violento, un furfante non è cosa pericolosa di massima e assai difficilmente l'ufficiale che ha inferto la punizione, corre il rischio della vendetta. Quasi sempre l'indigeno scoperto è olimpicamente preparato all'espiazione (salvo il tentativo frequentissimo di negare sul principio la colpa, cosa cui istintivamente l'accusato ricorre d'abitudine). Ma guai a pronunciare un verdetto ingiusto; guai a farsi la fama di un giudice parziale o inesperto: si corre il rischio di perdere la stima e la fiducia dei propri uomini.
Questo di buon arbitro è un requisito dell'ufficiale coloniale, che viene secondo solamente a quello del valore militare. Le truppe di colore, infatti, ottimi combattenti, seguono degli ufficiali veramente coraggiosi ed audaci. Esse hanno in genere una fiducia cieca, religiosa, nel loro comandante e nelle sue virtù guerriere. Mai come in questo caso è più vero il principio che un buon capo deve precedere all'attacco e dare l'esempio.
E il grande rendimento che queste nostre truppe hanno sempre dato e danno in guerra, si deve certamente, innanzi tutto, al valore e all'abnegazione dei nostri ufficiali coloniali, che in altissima percentuale sono caduto e cadono sul terreno.
Per questa gente di colore la guerra è la manifestazione più importante se non l'unica, della vita virile. Questa concezione deriva logicamente da una atavica abitudine alla razzia e alla controrazzia che da tempo immemorabile è la legge di vita dell'Africa, almeno di quella non mediterranea.
Quando gli ascari partono per la guerra, le donne, i vecchi, i bambini si radunano intorno alle colonne in partenza e mentre gli uomini attaccano interminabili cori, la popolazione civile (ci si passi l'espressione, che non vuol essere ironica) controbatte con un vocìo confuso, che in principio ha del chiocciare delle galline. E' una specie di litania che prende sempre più tono e giunge a dei crescendi epopeici, ove canto e danza formano una sarabanda favolosa.
Tutto ciò avviene spesso di notte, all lume di fuochi e sotto il cielo della notte africana denso di stelle brillantissime. E' uno spettacolo bello e anche impressionante, che si è ripetuto molte volte, in questi ultimi mesi, nei nostri possedimenti africani.
Ugo M. Monticelli