Don Alessandro Cavalli, arciprete di Neviano Rossi, incontra nel maggio 1942 il soldato Achille Setti, sopravvissuto all'affondamento del piroscafo Galilea, silurato da un sottomarino inglese vicino alle coste di Leucade. Nel naufragio, Su 1329 persone a bordo, ne moriranno un migliaio. Tra gli annegati c'è anche il nipote del sacerdote, Giulio Cavalli, alpino classe 1924, inquadrato nel Battaglione Gemona, come la maggior parte dei membri a bordo della nave. Don Cavalli raccoglie la testominianza di Setti, cercando di ricostruire la morte del nipote e del restante gruppi di cornigliesi che era con lui. Un lungo e suggestivo racconto.
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Appunti raccolti dalla viva voce dell'Alpino Setti Achille di Francesco e scritti da me, sottoscritto, nella di lui casa posta a Sivizzano Sporzana, il 20 maggio 1942.
Il Setti soldato richiamato della classe 1913 per la guerra attuale è uno dei pochissimi superstiti degli Alpini del Battaglione Gemona naufragati nel mare di Grecia per siluramento del piroscafo "Galilea" che li riportava in Italia, avvenuto dei pressi dell'isola di Leucade all'altezza del porto di Prevesa il giorno 28 marzo 1942, alle ore 22.45, dove ha trovata tragica morte mio nipote Cavalli Giulio figlio di Antonio residente a Ghiare di Corniglio.
Cavalli Giulio nacque nella parrocchia di Vestole Ghiare di Corniglio da Cavalli Antonio e da Besco Pierina nella cosa colonica del Beneficio Parrocchiale il 7 luglio 1921 e fu da me battezzato, essendo allora parroco di Vestola. Chiamato alle armi con la sua classe 1921, si presentò nei primi giorni del mese di gennaio 1941 e fu destinato al glorioso Battaglione Gemona dell'ottavo reggimento Alpini, trascorrendo i primi sette mesi a Tarcento di Udine.
Nel successivo Agosto 1941 fu inviato in Grecia a complemento del sudetto Battaglione, che faceva servizio di presidio nella città di Corinto. Era assegnato alla 71° Compagnia insieme con altri numerosi coscritti del distretto di Parma.
Il giorno 27 marzo 1942, alle ore 7 del mattino, quasi tutto il Battaglione Gemona della Divisione "Iulia" fu imbarcato sul piroscafo mercantile denominato Galilea, ancorato nel porto. Draghetto di Corinto.
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La partenza dal porto Draghetto avvenne alle ore 8 dello stesso giorno e alle ore 6 del giorno 28 marzo il piroscafo arrivò nel porto di Patrasso. Ivi si formò un convoglio composto di 11 navi, delle quali sei da trasporto e cinque da scorta; e cioé: Galilea, Piemonte, Crispi, Viminale, Aventino e un'altra di cui Setti non ricorda il nome; un incrociatore ausiliario, due cacciatorpedinieri. Detto convoglio lasciò Patrasso dopo le ore 12 del 28 marzo, navigando in direzione Nord lungo la costa della Grecia.
Alle ore 20 fu avvertita la presenza di un sottomarino nemico e fu iniziato il lancio di bombe in profondità dalle navi di scorta. Alle ore 22 circa la truppa si era disposta per riposare alla meglio; però il capitano della 71° Compagnia Alpini, avvisò di stare tutti all'erta e possibilmente in coperta per essere più pronti contro un eventuale attacco.
Fino alle ore 22 Giulio Cavalli e i suoi amici erano rimasti a basso in stiva giuocando a carte (briscola e tesette) in quattro, cosè suddivisi: Cavalli con Lette e Cattani con Tortorini. Il Setti mi riferisce che giocava spesso con Cavalli anche a dama quando erano in Grecia e che giunti in Italia sarebbero venuti insieme a Neviano Rossi per farmi visita.
Alle 22, secondo l'ordine ricevuto, smisero di giocare per riposare, però tenendo sempre applicato attraverso il corpo il salvagente.
Alle 22.45 avvenne il siluramente improvviso, che fece sussultare e sbandare la nave Galilea, la quale era stata colpita nella parte anteriore dello scado traforato da parte a parte. Svegliati dallo schianto rumoroso e dall'urto, tutti si precipitarono in coperta. Il comandante
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della nave ordinava subito di gettarsi in mare, temendo che affondasse repentinamente. L'ordine non fu eseguito che da una metà circa degli uomini, frai quali Setti ricorda l'alpino Bianchi Paolo del Comune di Corniglio che gettandosi subito in mare, ne sentì le grida disperate di lamento e di aiuto, poi lo vide scomparire tra i gorghi delle onde tempestose.
Circa un'ora dopo il siluramento Setti Achille si spogliò nudo (munito solo di salvagente e di molto coraggio) si decise a scendere in acqua per tentare la fortuna di salvarsi a nuoto verso la spiaggia, ma dopo aver lottato con la furia dei marosi, che lo spingevano con molta violenza e minacciavano di schiacciarlo contro il fianco della nave, riuscì ad aggrapparsi ad una spranga di ferro squarciata vicino al largo foro prodotto dal siluro, dove purtroppo avevano già trovato la morte numerosi suoi compagni, perché sospinti e ingoiati dal gorgo formato dalla violenta corrente d'acqua spinta dal risucchio e dal vento fortissimo che soffiava da Est all'Ovest.
Così aggrappato il Setti gridò ai suoi compagni che ancora erano sulla nave di gettargli la corda, con la quale lo riportarono a bordo stremato di forze e tramortito.
Gli amici della sua squadra Cavalli-Coppi-Tortorini e Cattani, che in quel momento si trovavano coricati e stretti l'uno all'latro nel corridoio a destra della nave evvero cura di adagiarlo presso di loro, ricoprendolo con gli abiti e le coperte abbandonate da coloro che prima si erano gettati in mare.
Appena ritornato in sé, Setti ebbe modo di vederli anche lui coricati, ancora completamente vestiti, coperti della loro mantellina, stretti e avvinti tutti e quattro insieme.
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Setti ricorda che Cavalli Giulio invocava spesso suo padre con grida di spavento, mentre Cattani andava ripetendo: "Ma guarda dove mi tocca fare la morte del topo", e si sghignazzava, come era sua abitudine anche quando parlava fuori di pericolo, essendo un tipo molto gioviale.
Coppi e Tortorini-Ferrari tacevano, fumando di tanto in tanto qualche sigaretta. Interrogato se si stava meglio in acqua o sulla nave, Setti mi rispose che ormai era deciso anche lui di affogare insieme con loro, perché il tentativo che aveva fatto lo aveva spaventato e sfinito; tanto più che il mare molto agitato dal gelido vento di tramontana e dalla grandine, si era trasformato in uragano di tempesta.
Intanto la nave continuava a calare a fondo lentamente, rovesciata sul fianco sinistro, e verso le ore di notte incominciò a sbandare e a sussultare, perché ormai le onde stavano ingorgandola e i pochi soldati aggrappati alla lamiera di bordo venivano sbattuti violentemente.
In quell'istante Setti rovesciò le coperte che aveva addosso, balzò in piedi di scatto e chiamato i compagni perché lo seguissero in quell'ora suprema, salì sulla ringhiera e si lanciò in acqua per la seconda volta verso la parte opposta della prima: ma nessuno dei suoi amici soprannominati ebbe il coraggio di seguirlo così egli dopo aver lottato con le onde disperatamente per una mezzora riuscì ad aggrapparsi ad un pezzo di legno (un'asse) insieme ad altri due naufraghi.
Così rimasero in balia delle onde per altre tredici ore; [?] circa alle ore 10.30 il compagno che stava aggrappato nel mezzo della tavola, non potendo più resistere perché non riusciva di rigettare l'acqua che ingoiava,
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mentre gridava, lo vide crepare con fuoriuscita di sangue e di acqua dalle orecchie. Setti lo tenne per mano anche dopo che era morta; ma per breve tempo, perché essendo quasi sfinito fu costretto ad abbandonarlo e subito fu sommerso dalle onde del mare.
Setti riferisce che dopo essere sceso in mare per la seonda volta ha visto i raggi di un riflettore che illuminavano lo strazio, dove era affondata la nave e nello stesso tempo udiva gli spari di una mitragliatrice.
Uno dei cacciatorpedinieri di scorta ha continuato a seguire le navi del convoglio, che si dettero subito a precipitosa fuga, mentre l'altro si fermò sul posto del siluramento a fare pelustrazioni, raccogliendo oltre 200 naufraghi della Galilea, numero molto superiore al suo carico.
Fino a quando il convoglio era partito da Patrasso il mare era già agitato, poi si è fatto sempre più tempestoso sino al mezzogiorno del 29 marzo (domenica).
Il Setti afferma che all'alba vi è stato un altro tentativo da parte del sottomarino nemico di attaccare con il lancio di siluri il cacciatorpediniere rimasto sul posto; per fortuna non riusciva. Pare che tale sottomarino fosse greco, comandato da inglesi, e stava in agguato presso gli scogli di quelle coste marittime da diverso tempo, tanto che aveva già silurato in precedenza altre navi.
Verso le ore 9 del mattino 29 marzo è sopraggiunto un idrovolante della Croce Rossa Italiana, il quale nell'ammarare, causa il mare molto agitato, si è revosciato ed è affondato, trascinando con sé le barchette di salvataggio.
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Frustrato anche questo mezzo, il Setti Achille aveva perduta ogni speranza di salvarsi, pur continuando al lottare contro la morte; quando alle ore 14 arrivò vicino a lui un motoperschereccio che lo raccolse, più morto che vivo, insieme al suo compagno di naufragio, sempre attaccati a quel pezzo di legno, che fu l'unica e vera ancora di salvezza.
Con altri 20 superstiti e 47 cadaveri Setti fu trasportato al porto di Prevesa, dove giunse alla sera del giorno 29 marzo (domenica delle Palme) alle ore 19.30.
Il siluramento della nave Galilea è avvenuto al Nord-Ovest dell'isola di Santa Maura (anticamente Leucade): piccola isola presso la costa occidentale della Grecia, posta fra le due altre isole maggiori di Cefalonia a sud e Corfù a nord.
Il carico completo era di circa 1800 uomini compreso l'equipaggio, composto da circa 150 marinai, dei quali se ne sono salvati appena 35. Gli alpini del Battaglione Gemone erano qausi 800 tra ufficiali di truppa; i salvati non più di 120. Su detta nave vi erano altri soldati (in massima parte bersaglieri) alcuni dei quali diretti alle loro famiglie per una breve licenza dopo trenta mesi di guerra.
Il totale di superstiti non ha superato i 350 uomini, fra di essi due Cappellani Militari degli Ospedaletti da campo per truppe alpine.
Durante la fase di affondamento, che durò quasi cinque ore, il panico fu spaventoso. Da principio molti gridavano e urlavano correndo all'impazzata sui ponti della nave. Poi alcuni si gettarono in acqua, mentre altri si abbracciavano strettamente gra di loro. Furono uditi anche spari di rivoltella di qualcuno che si dette la
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morte da sé; fra i quali il Tenente-Colonnello Boccalati vice-comandante dell'8° Alpini ed altri ufficiali. Non mancarono quelli che si ubriacarono profondamente bevendo vino e liquori trovati a bordo della nave.
Il Comandante della nave Galilea invece è affogato insieme con molti dei suoi marinai, ed il suo cadavere è stato raccolto dal moto peschereccio.
Non è stato ripescato il cadavere del capitano D'Alessandro degli Abruzzi (Ufficiale poco gradito) comandante del Battaglione Gemona.
Il Colonnello Michele Camosso, comandante del reggimento degli Alpini era partito alcuni giorni prima dalla Grecia in aereoplano, essendo stato chiamato a Roma.
Il Tenente Bernardini (friulano) unico ufficiale superstito della Compagnia Comando, subito dopo il suo arrivo a [?] (Friuli) dove risiede il Comando generale della Divisione Julia, è stato chiamato a Roma da Mussolini stesso per dare relazione sul disastro della nave Galilea.
Il gruppo di amici, alpini della 71° Compagnia del Battaglione Gemona, era così composto:
1) Cavalli Giulio di Ghiare di Corniglio - Vestola,
2) Cattani Ettore di Ghiare di Petrignacola di Corniglio
3) Tortorini-Ferrari Teodoro di Ghiare di Corniglio
4) Coppi Igini di Signatico di Corniglio
5) Bianchi Paolo di Sanna di Corniglio.
Tutti cinque scomparsi in mare nella notte 28-29 marzo 1942. Setti e Cavalli erano sulla stessa squadra, comandanta dal Caporal Maggiore Nebbioli piemontese, vicini a dormire anche sulla stessa nave Galilea.
Nella stessa sciagura ha trovato gloriosa morte l'Alpino Bonzani Felice di Pietro, classe 1920, abitante a Selva Smeralda di Neviano Rossi con la famiglia di mezzadri del Signor Renato Folli. Di lui il Setti riferisce che è rimasto morto subito, perché trovavasi al momento della disgrazia proprio nel posto dove il siluro ha perforata e squarciata la nave Galilea.
In fede di quanto sopra
Cavalli D. Alessandro - Arciprete di Neviano Rossi. 25-V-1942