Articolo di Gigi Romersa, pubblicato sulla Gazzetta di Parma l'1 agosto 1942 e scritto nel luglio dello stesso anno, mentre era in atto la prima battaglia di El Alamein. In questo lungo reportage dal fronte egiziano, il racconto si sofferma sui prigionieri catturati dagli italiani, la cui composizione "razziale" è considerata motivo di debolezza dell'impero britannico: "I mercenari, tutti questi soldati di colore, stanno a testimoniare la degradazione politica e spirituale dell'Inghilterra che ha chiamato a raccolta i negri per combattere i bianchi." L'Articolo rievoca in questo modo uno dei cliché della propaganda bellica fascista.
FRONTE EGIZIANO, luglio.
Prigionieri, prigionieri, non si incontrano che prigionieri andando verso il fronte. Colonne interminabili di autocarri con rimorchio, pieni zeppi di uomini dalle espressioni più strane e disparate, vestiti tutti allo stesso modo, ma divisi dal marchio incancellabile della natura che fa di ogni razza un tipo speciale con un viso proprio, una capigliatura propria, un colore di pelle proprio che un cappello, una camicia, un pastrano non possono nascondere.
Sono gli uomini di Bir Hacheim, di Tobruch, di Sollum, di Sidi Barrani, di Marsa Matruchm della stretta di El Alamein, ai quali l'Inghilterra ha affidato la difesa del suo traballante impero e del suo già scosso prestigio.
Un caleidoscopio di razze, un miscuglio di continenti, una babele di idiomi che fortemente agitati nel "saker" di Churchill hanno dato vita alla figura del soldato britannico. Ne è uscito un "cocktail" umano di mille sapori che oggi fa bella mostra di sé nella grande vetrina di questa guerra africana. Vedendoli si ha l'impressione di fare una corsa rapida attraverso i continenti; sembrano quegli omuncoli che appaiono a tinte chiassose sulle pagine delle enciclopedie e formano i diagrammi dei popoli, gli specchi delle razze.
Aggirandosi fra questi prigionieri che sono ancora impregnati dell'odore della loro terra, si ha una parlante e viva sensazione della fragilità del mastodontico edificio inglese che sta in piedi sfruttando fino all'estremo il sangue dei suoi sudditi.
Anche se sulle spalle portao un'uniforme uscita dal magazzino della City e sui fregi è impressa l'effige del Leone e della corona di S.M. Britannica, il loro cuore sarà un cuore di negri, di francesi, di canadesi, di australiani, di cinesi, di indiani, di sud-africani, di polacchi, di russi, un cuore non certamente inglese, un'anima prezzolata e incapace di vivere la bellezza di una lotta per un ideale così grande come quello della Patria.
Potranno battersi fino all'esaurimento delle loro energie, ma al termine di ogni combattimento nessuno sentirà il calore di quella giamma interna che accende lo spirito e rinnova le forze per vincere altri e più duri sacrifici.
Sono un esercito vinto
Gli autocarri che corrono verso le retrovie danno l'impressione di un esercito in movimento. Un esercito di vinti che cammina a ritroso per raggiungere i campi di concentramento. Basta osservare il materiale umano che sfila davanti ai nostri occhi per avere un quadro esatto della disfatta.
Anche coloro che ostentano ancora una certa baldanza portano scritto sul viso le sofferenze del lungo viaggio e l'amarezza della sconfitta.
L'apatia del vinto ha sommerso la fierezza del soldato. Non è facile entrare nell'animo e nelle idee di costoro; è difficile indagare quali siano i loro pensieri su questa guerra si di guerra può ancora parlarsi.
Negli occhi di tutti, nella rassegnazione che chiude e spegne gli sguardi c'è una sola aspirazione, che tutto finisca presto, comunque, ma presto.
E lo manifestano con l'indolenza con la quale trascinano le loro poche cose, con l'abbandono con cui si distendono a terra e si addormentano in tutte le posizioni, in tutti i posti.
Se le vicende li hanno trascinati - molti quasi inconsciamente - nelle vampe dei campi di battaglia, ora tutto è lontano, fuori dai loro pensieri, dalle loro ansie, dalla curiosità che è comune ad ogni mortale ma che non lo è per costoro perché dove tuonava il cannone era in gioco il prestigio di una nazione che non era la loro patria, per la quale non sentivano di nutrire alcun sentimento.
Ma questa umanità prostrata nelle energie e negli spiriti mostra maggiormente i suoi veri caratteri nei campi di concentramento dove avviene la prima sosta. Sono ampie distese chiuse da reticolati, vigilate da sentinelle, dove i prigionieri stanno, riuniti, gomito a gomito, tanti sono, e dove la varietà razziale dei soggetti risalta in modo violento. Si uniscono a gruppi e ogni gruppo si sistema secondo delle abitudini speciali, direi locali, sempre riferendomi alla terra di provenienza.
Il campionario si presenta una interessante varietà di colori che gfanno da cornice al tipo classico ingllese, biondo paglia, dal viso lungo, la bocca larga nella quale è in mostra una chiostra di denti cinematografici, gli occhi chiari, scoloriti.
I mercenari, tutti questi soldati di colore, stanno a testimoniare la degradazione politica e spirituale dell'Inghilterra che ha chiamato a raccolta i negri per combattere i bianchi.
E' strano e vuoto lo sguardo degli indiani. Facce olivastre, scamosciate, teste sulle quali i capelli sono annodati a cucuzzolo, occhi fondi, neri, mobilissimi, labbra sottili appena segnate, barbe copiose, ricciute, da Vecchio Testamento. Dichiarano senza ambagi che questa guerra non li interessa; nel loro animo risuonano forse, col timbro di una invocazione religione, i principi di "Satjagraha" lanciati da Gandhi all'India che deve diventare indipendente.
Ci sono piccoli cinesi, dei malesi col volto di limone, grattuggiato, con la piccola testa affondata in un grande casco di foglie di banana.
Ma ciò che può maggiormente interessarci, da un punto di vista giornalistico, è quel gruppo di degaullisti, cosidetti "Liberi francesi", uomini della Legione Straniera.
Sotto più bandiere
Il termine "Legione Straniera" che ha dato vita a una speciale letteratura coloniale, fatta di passioni violente e di rinuncie terribili, fa rivivere anche nelal nostra fantasia una serie di immagini che la realtà ben presto distrugge.
Ci sono qui degli uomini della famosa "Legione" che ormai non si può più dire francese, avanzi di umanità che il destino e la guerra hanno sballottato da un continente all'altro. Hanno impressi sui visi la tragedia della loro vita, con tutte le sofferenze, con tutte le privazioni, con tutti i dolori.
Taciturni come chi ha l'animo tormentato dal rimorso, spiccano fra la massa degli altri prigionieri per la caratteristica foggia del copricapo. Sono vestiti all'inglese, con i pantaloni né lunghi né corti, rimboccati, ma tali da permettere di preservare il ginocchio strisciando a terra, hanno i calzettoni verde-oliva con le comuni uose di tela dura camicie color chiara d'uovo e il classico "chepì" a visiera tesa, con la foderina bianca che scende sulle spalle. Anche fra costoro c'è un po' di tutta l'Europa, francesi, svizzeri, russi, polacchi, rappresentanti di una società messa al bando e costretta a viviere dietro lo schermo di un falso nome.
Ma interroghiamo alcuni e specialmente uni ci parla di sé e della legione senza parsimonia di frasi. E' un meccanico parigino, da anni arruolato e ora qui per necessità. Quando la Francia firmò l'armistizio egli si trovava in Siria; gli venne posto "l'aut, aut" o rimanere e cambiare padrone o perdere i soprassoldo ed essere perseguitato. Il bisogno fece traboccare il piatto della bilancia. Ora costui ha un solo desiderio, che finisca presto la guerra - non gli importa nulla dell'Inghilterra e di De Gaulle - e gli sia data la possibilità di tornare al suo mestiere.
Accanto a lui un altro legionario, più giovane, uno studente. Sulle prime risponde brevemente e ricusa addirittura di parlare, poi, a poco a poco, la lingua gli si scioglie e dice di essersi arruolato per seguire le sue idee. A fondamento di ogni sua asserzione ammette il disprezzo per gli inglese. Continua ad accennare a principi universali, a ideali senza sfiorare minimamente il tasto della patria. Informandomi maggiormente, vengo a sapere che è un ebreo. Per tutti, dunque, per coloro che sulle prime sembravano essere scesi sul campo di battaglia in difesa di un principio, c'è il movente unico che ha nome interesse, interesse, al di sopra di qualsiasi cosa, di qualsiasi pensiero, di qualsiasi spiritualità.
Gigi Romersa