Lungo articolo, apparso sulla Gazzetta di Parma il 1 dicembre 1940, a firma di Ugo Cangiani. Il giornalista si sofferma sull'odio che animerebbe il popolo greco, "un popolo" - scrive - "che si atteggia a grande e non s'accorge che tra esso e gli antichi abitanti dell'Ellade c'è lo stesso abisso che separa gli ebrei odierni dai loro antenati di Gerusalemme.
I motivi di questo odio, secondo l'autore, sono da ricercarsi "perché nella rinascente giovinezza italica il popolo greco ha intuito la minaccia alla sua vita losca e pettegola di potenza orientale. Forse in questo odio è il rancore sordo e livido di una razza purulenta indegna di riconquistare per ragioni biologiche e sociali il suo antico passato contro un'altra che sempre, nata sullo stesso mare, si è saputa conservare forte nei secoli."
Nella seconda parte dell'articolo è invece raccontato l'attacco al consolato italiano nel Pireo.
Tirana, novembre.
L'odio che in Grecia nelle città e nei paesi circonda dovunque l'italiano non è solamente un senso di avversione più o meno profondo germinato nelle masse attraverso la spinta delle classi commerciali tutte come abbiamo visto legate all'Inghilterra.
L'odio trova la sua radice, più che nel contingente, nella forma stessa del pensiero greco moderno, nell'essenza stessa della sua razza traviata e meticcia. Più che odio è un sentimento intenso di invidia stretta e contenuta in cento occasioni, un livore sordo e tenace che oggi finalmente può avere libero sfogo. Forse perché il popolo greco nella sua feroce miopia soffre né sa darsi pace che una razza alla sua uguale nell'antichità, oggi di nuovo sveglia, si accampi gloriosamente su quel mare che i levantini del Pireo e gli ebrei di Salonnico credevano fosse - espressione concreta della "megali idea" - loro esclusivo dominio. Forse ci odiano perché nella rinascente giovinezza italica il popolo greco ha intuito la minaccia alla sua vita losca e pettegola di potenza orientale. Forse in questo odio è il rancore sordo e livido di una razza purulenta indegna di riconquistare per ragioni biologiche e sociali il suo antico passato contro un'altra che sempre, nata sullo stesso mare, si è saputa conservare forte nei secoli.
Certo, dovunque si vada, sotto la vernice sottile del sorriso diplomatico dell'orientale come sotto la maschera bruta del meteco, questo odio è una fiamma che si accende subito alla vista di un italiano. L'ho sentito rumoreggiare sordamente nei salotti eleganti di Khipissia e nel cinguettio femminile del bar del "King George". Mi ha soffocato l'animo in mezzo alla folla promisca di Keramion e di Omonia. Mi è venuto incontro quanto passavo con il distintivo all'occhiello attraverso le vie di Kalambaka e Delo.
- Italikos!
E sulle labbra si formava lo stesso ghigno bestiale che a Parigi ho sorpreso a taluno quando diceve "boche". E in quel ghigno c'era non solamente rancore, ma più di tutto un senso di sfida e di acre vendetta, un'aria sprezzante di gonfia superiorità. E si dimenticava che a questi italiani odiati e disprezzati la Grecia deve in parte la sua indipendenza: si dimenticava che quando i francesi e gli inglesi - questi idoli d'oggi - occupavano con le loro truppe Atene, fu l'Italia a frenare le angherie e ad accogliere nella pace di Firenze Re Costantino. Ma questo loro non ricordano; è tempo passato e la memoria l'hanno debole.
L'Italia è sempre per loro la piccola potenza che strappò un giorno con la frode alla Grecia le isole egee (le quali tra l'altro erano in possesso della Turchia). L'Italia è sempre la nazione che all'indomani della grande rivoluzione nazionale si affermava solenne custode delle nostre tradizioni occupando Corfù e imponendo al governo greco di riparare alla strage del generale Tellini e dei suoi compagni con la riparazione della nostra bandiera. E' per questo che anche senza la guida compiacente del "Foreign Office" la Grecia ha sempre mantenuto nei nostri confronti una politica ostile e maniaca sotto Venizelos come sotto Metaxas e nell'Intesa balcanica, strumento di marca ginevrina per difendersi dalle giuste richieste dei popoli mutilati a Versaglia, essa puntò sempre in senso antiitaliano e perciò anche antimediterraneo. Quasi che per i megalomani di odos Sophia solo la Grecia assieme all'Inghilterra avesse il diritto di regnare nel mar Mediterraneo.
Queste cose a scriverle adesso sembrano evidenti e naturali; e questo odio all'indagine severa dei politici e dei biologi è una secrezione logica di tutta una mentalità che ha perso da secoli il gusto europeo né ha ancora ritrovato lo spirito asiatico. Ma io ricordero sempre una visita a un campo della Neolea accompagnato da Alessandro Cannelopulos, il capo delle organizzazioni giovanili greche. Invitato dal comando dell'organizzazione mi ero recato con il suo capo e altri gerarchi ad assistere a una manifestazione sportiva che a me avvezzo a quello dei nostri ragazzi doveva sembrare, secondo la mente dei miei ospiti, qualche cosa di assolutamente insuperabile. Uno spiazzo erboso circondato da alcune tende con in mezzo su un pilo la bandiera greca dalla doppia ascia: tutto intorno seduti per terra questi ragazzi in divisa azzurra e cravatta bianca; in fondo un reparto femminile giunto da una sede vicina, visi di gagarelle e chewing gum fra i denti. Al nostro arrivo un caposquadra fischiò in un suo fischietto stridulo: svogliatamente i ragazzi si alzarono e le ragazze si misero a parlare sottovoce, più in silenzio. Cannellopulos si fermò in mezzo al campo e parlò: banali parole e più banali espressioni. Poi mi presentò come un giornalista italiano. E allora su quei volti vidi passare un soffio di scherno e da qualche parte delle voci incominciarono a scandire "italikos...Dodekannisos..Dodekannisos". Stetti in silenzio guardando Cannellopulos, credendo che quasto gran capo occulto della Grecia d'oggi sia pure per un semplice sentimento di ospitalità facesse smettere quelle grida; e mi scontrari con uno sguardo gelido e un sorriso bieco e sprezzante che mi obbligò a lasciare immediatamente quel campo e a protestare l'indomani presso le autorità greche.
Un episodio; ma prova che anche in un semplice italiano e in tempi in cui ancora lontani da oggi e la nostra pazienza ancora non aveva oltrepassato il limite supremo in Grecia l'odio era immenso e saliva sempre più oltre le usuali forme politiche. E di questo odio, di questa pazzia, i campioni più forti sono proprio nelle file della Neolea, tra i giovani e le ragazze (anche le ragazze partecipano privandosi del loro femminino a questo animo) della Grecia di Metaxas, aizzati dalle parole tronfie di Cannellopulos e dell'occhialuta foga del signor primo ministro.
Ne sanno qualcosa gli italiani rimasti rimasti ad Atene assaliti per le vie più che dalla folla da questi giovani virgulti di un popolo che si atteggia a grande e non s'accorge che tra esso e gli antichi abitanti dell'Ellade c'è lo stesso abisso che separa gli ebrei odierni dai loro antenati di Gerusalemme.
Il nostro intervento ha sciolto come mute selvagge queste schiere di giovani che credono che basti solo l'odio a vincere un popolo forte e a dare la vittoria. E, lavorato negli ultimi giorni dalla sestuplicata propaganda britannica, l'odio contro l'Italia è esploso furente nel tentativo di saccheggiare il nostro consolato del Pireo, ultimo sfogo, bestiale e ferino che stigmatizza una razza.
Pireo 28 ottobre ore 9.
Svegliati a notte inoltrata dalle telefonate delle nostre autorità diplomatiche molti connazionali si sono in tempo rifugiati nel nostro consolato dove il console Maura ha già apprestato i primi soccorsi e la prima difesa. Tutto sembra ancora normale; solo giù alla porta un drappello della gendarmeria vigila e non permette a nessuno di accedere. Ma ad un tratto dalle vie adiacenti irrompe nella piazza una masnada di gente tutti studenti della Neolea, alunni della scuola del Pireo e di Atene.
In breve la piazza è piena di una folla di ragazzi che urlano il solito ritornelo "Dodekannisos...Dodekannisos...". Ma lì vicino - resti di una demolizione recente - c'è un mucchio di sassi, selci appuntiti dalle cave di Eleusis. Immediatamente una ssataola incomincia contro il consolato: volano i vetri in frantumi; si scardinano le persiane; vibrano i muri sotto l'impeto furente. In dispare la gendarmeria di Magnadakis sorride contenta. E i colpi raddoppiano e qualcuno più audace tenta di strappare lo stemma. Un gendarme si fa sotto le finestre e chiede al console di voler immediatamente togliere le insegne dalla porta. Calmo, la rivoltella in pugno, il nostro console affronta la marmaglia e seccamente rifiuta, lui in consolato, di abbassare lo stemma. E la sassaiola continua e spesso dalle finestre infrante le pietre e le scheggie volano nelle stanze e feriscono donne e bambini. Tre giorni dura questo attacco da parte di tutti i giovani greci; da Atene la metropolitana riversa come a festa schiere di altri esaltati. E' la festa, il sabba dell'odio, contro gli "Italikos".
Avanti, avanti contro questo consolato che dalle mura tutte rovinate, dalle finestre schiodate spira ancora un'aria di austera gravità...
Ma lo stemma resiste e resisterà fino all'ultimo quando, al momento di partire, il console esce a toglierlo nella piazza gremitissima di popolo urlante. Poi - e di fronte a tanta serenità i beceri tacquerò come davanti a cosa più grande del loro mondo - nel silenzio chiuse il portone e appose i sigilli. Quattromila persone guardavano attonite. In piedi davanti ai due autocarri gli italiani stavano sull'attenti. Quasi un rito, il console svolse le ultime formalità; e volto verso il suo consolato - tornato soldato - alzò la mano nel saluto fascista. Non un alito. Trascinati dal gesto e dal silenzio le guardie portarono la mano al berretto, salutando. Poi gli italiani si avviarono verso Atene mentre la folla ubriaca ripreso animo prorompeva in grida e in imprecazioni.
Ma una nostra formazione di bombardamento volando nel sole venne a disperdere questa gente e nel rombo sinistro delle bombe sugli impianti portuali e nel crepitio secco delle mitragliatrici il popolo potette vedere i primi frutti dell'odio.