Dal Fronte Occidentale, luglio 1940
C'era qualche cosa di nuovo nel cielo plumbeo di Aosta in quel meriggio di guerra. Un inseguirsi precipitoso di nubi dense simili a destrieri galoppanti, una espressione di lotta radicata nella furia degli elementi, trasmessa nel cuore di quanti, lasciati i convogli ferroviari, si avviavano al fronte.
File interminabili di autocarri grigi come la volta celeste, riempivano del fremito dei loro motori le contrade della città circondata da arditi picchi di alpini ancora incappucciati di bianco. Guglie aguzze e svettanti foravano la nuvolaglia informe, sguarciata di tanto in tanto dai rabeschi rossastri dei fulmini, quasi, che al dil là della cinta grigia, una città in fiamme andasse in rovina. Non la rovina di una città ma di una intera nazione, la tragedia dell'occidente europeo ormai decrepito, piedistallo troppo fragile e malsicuro per il vessillo della democrazia francese.
La pioggia insistente rivestiva di una patina argentea, luccicante, i tetti delle casse, le strade, gli ordigni possenti di guerra. Una lunga colonna di carri d'assalto attendeva, immobile sul ciglio della strada fangosa, l'ordine di movimenti. Sui volti degli uomini si leggeva la consapovelzza della loro forza.
Alle venti, quando il cielo era divenuto più fosco e le prime ombre della sera erano calate sulle vette Alpine, i motri fecero sentire , dopo la stasi del viaggio, la loro voce di vittoria. Si andava incontro al nemico, appollaiato nei forti e sulle rocce del Piccolo San Bernardo.
La notte era ormai fonda; la strada simile ad un nastro di piombo, con ampie sinuosità, attaccava il valico. I pini all'interno fremevano e diacce, folate di vento scuotevano le lische madide di pioggia.
I carri salivano in lunga colonna, simili ad un serpe gigantesco dai cento occhi azzurri e fosforescienti, mordendo la via coi cigolhi quasi fossero mani contratte in uno sforzo supermo di vita o di morte.
Il tuono del cannone, a mano a mano che ci si avvicinava al fronte, diveniva cosa più reale; la guerra cessava di appartenere al regno della fantasia, e si mostrava con la sua selvaggia furia di distruzione. Colonne di automezzi e di uomini salivano e scendevano per avvicendarsi nella lotta.
Qualche furgone della Croce Rossa chiedeva insistentemente strada e al fiocco lume di una lampada si scorgevano i volti dei primi feriti. Poi tutto ripiombava, per brevi tratti, in un silenzio pauroso rotto solo dal ticchettio ossessionante della pioggia.
Il nemico non doveva essere lontano e questa certezza accresceva il desiderio del cimento. Poche ore ancora e i piccole, veloci carri del primi Battaglione del tretatreesimo Carrista "Littorio" sarebbero scattati oltre il confine lungo le strade sulle quali ormai sventola il tricolore d'Italia.
L'alba brumosa non fu foriera di sole ma portò una gioia vivida nei curoi, l'ordine di attaccare. Momenti di attesa febbrile; gli ultimi rintocchi di motori e alle armi prima di lanciarsi oltre il confine, giù per le contradde alpine della vecchia Gallia Romana. Dai forti circostanti le armi automatiche e i cannoni del nemico non cessavano di far sentire la loro voce rabbiosa.
Erano le cinque e trenta quando il primo carro mosse all'attacco. Al di là del valico la sbarra di confine rivolta al cielo dava la impressione di qualche cosa di morto, di qualche cosa che non doveva rinascere più. L'Italia era lì con i suoi figli migliori, con le sue armi potenti.
Larghe biche sulla strada e a ai margini indicavano i colpi precisi dell'artiglieria francese. Ma i carri avanzavno col gaio rumore dei loro motori, ordinati e veloci, quasi si apprestassero a una parata.
Una grandine di piombo e di fuoco sconvolgeva gli elementi sollevando dense colonne di terriccio e di fumo. Dal forte delle Traversette, i nemici squarciavano la strada e distruggevano sistematicamente il piccolo ponte sulla Risière.
Cavalli di Frisia, arricciati e rugginosi celavano mine insidiose, ostacoli sui quali la colonna dei carri lasciò le sue prime eroiche vittime. Era un cozzo di ferro contro ferro in uno scenario apocalittico che ben difficilmente si può descrivere con coloro simili ai reali. I cingoli stridevano trascinando masse informi di reticolato.
Si combatteva oltre i duemila metri, nell'aria turbinava il nevischio pungente, la strada correva incassata fra i ghiacciai.
Dieci, quindici gradi sottozero.
Il sudore che imperlava le fronti si trasmutava ben presto in ghiaccio. I carri sprofondavano nel fango facendo paurose scivolate nei tratti ove la via era franata.
Si combatteva sulla linea più fortificata d'Europa. Le Alpi costituiscono infatti per sé stesse un baluardo possente e su quelle rocce tramutate in caverne e nidi di armi di ogni genere, il nemico giocava l'ultima carta del suo prestigio. Da quei dirupi, trasformati in una immane fortezza, venivano battuti tutti i sentieri, tutte le gole. Non ostante queste apprestamenti difensivi il fronte francese si sgretolava dal Monte Bianco al mare.
Quanto appariva più irreale e impossibile, lassù, al Piccolo San Bernardo, è stato realizzatoin una cornice di lotta portata fino all'estremo sacrificio.
I caduti che avevano imporporato con il loro sangue le candide nevi, additavano, dall'interno della loro tomba d'acciaio, il nuovo cammino a coloro che li sopravanzavano. I loro spiriti marciavano ancora alla testa della colonna vittoriosa e nella loro giovanile spigliatezza era tutta la vitalità di questa nuova Italia.
Ed pra che la tranquilittà domina in quel regno delle nevi perenni, al calare delle prime ombre della sera, si accendono fuochi sui valichi conquistati e il vento, facendo mulinello fra i pini, suscita un cadenzato stormire che si perde lontano di valle in valle, oltre il confine, come un canto, promessa e pegno di cento altre ardimentose conquiste.